Pansy è una casalinga sempre in lotta col prossimo: il marito, il figlio obeso e affranto dalla solitudine, lo sconosciuto nel parcheggio o al supermercato. La sua è una vita straziata e straziante (come l'urlo con cui si apre il film, lei sola nella sua camera che vive come un rifugio che la protegge dal mondo) soffocata dalle paure e dall'ansia costante di un non ben precisato pericolo. I suoi modi aggressivi la rendono odiosa e antipatica. Le fa da contraltare la sorella Chantelle, parrucchiera solare che non alza mai la voce, si prodiga in consigli per le clienti, le colleghe e le figlie ed è benvoluta da tutti. Mike Leigh scrive e dirige un ottimo film dove all'apparenza succede poco. In realtà, al di là della (non) vita di Pansy punta il dito e la trama sullo stato interiore della donna. Mostrare il fuori per arrivare al dentro, catapultandoci a piedi uniti nel dolore e nelle paure più profonde di una donna che vede il mondo come qualcosa di incontrollabile, dove tutto (persino un uccello nel giardino spoglio) è spaventoso e necessita o di un aiuto esterno (il marito che scaccia il volatile) o di una perfetta noncuranza. A questo proposito ottimo l'esempio del figlio Moses che per la festa della madre le regala con tenerezza un mazzo di fiori che la donna tratta con ripugnanza: anche il più semplice gesto dell'altro è vissuto come un atto terroristico. Motivo per cui sia Moses che il padre sono schiacciati da questa divorante figura di donna, tanto da non sapere bene cosa fare e da rinchiudersi in un mutismo desolante. Le motivazioni del terrore di Pansy saranno sfiorate nel film e non le svelerò qui. Il regista ottantaduenne inglese dirige con mano lieve ma precisa un'opera tesa e drammatica. Ancora una volta (dopo “Segreti e bugie”) la famiglia e i suoi componenti sono il punto di partenza su cui si focalizza la lente del regista. Che regala a Marianne Jean-Baptiste un ruolo da grande interprete (che le è valso il premio Attrice dell’anno 2024 del London Critics Circle Film Awards), proprio lei che aveva debuttato nel 1996 con Leigh nello splendido già citato "Segreti e bugie" (se non lo avete visto recuperate questo piccolo gioiello!). Anche gli altri attori sono in stato di grazia, tutti. Consigliatissimo. Al cinema.
Visti (e rivisti) dal Conte
Recensioni di film al cinema e su piattaforme digitali
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sabato 28 giugno 2025
mercoledì 18 giugno 2025
IL MAESTRO E MARGHERITA di Michail Lokshin
Mosca, 1930: il Maestro, celebre autore di testi teatrali attraversa un periodo di crisi. La sua opera, incentrata sul rapporto tra le figure di Ponzio Pilato e Gesù, viene fortemente osteggiata dal governo tanto da essere sospesa a pochi giorni dalla prima. Inizia allora a scrivere un'altra storia che riguarda l'ipotetico arrivo del Diavolo a Mosca. Fedele trasposizione del romanzo omonimo di Michail Bulgakov, il film di Michail Loksin, da lui sceneggiato con Roman Kanton, è una buona prova di messa in scena di una storia dentro un’altra. Infatti la scrittura del Maestro prende forma e diventa essa stessa immagine e storia all'interno del film. Che è molto godibile e a tratti ironico, anche se pecca troppo di spettacolarizzazione negli insistiti effetti speciali. Il film però emoziona e dona nuovo vigore alla scrittura di Bulgakov. Il libro, scritto tra il 1929 e il 1939 venne censurato e "liberato" solo nel 1969. Senza manierismi o fronzoli, il regista dirige con mano decisa gli attori, muovendoli con cura e prendendosi il tempo necessario per il suo racconto. Ottimo August Diehl, attore tedesco di nota bravura (Bastardi senza gloria) nel ruolo del Diavolo Woland, e altrettanto bravi Evgenij C'igardovic (nel ruolo del Maestro) e Julija Snigir (Margherita), così come i comprimari. Un buon film, campione di incassi in Russia e tuttavia fortemente osteggiato da alcuni ufficiali del governo che si sono lamentati delle idee del regista verso la guerra in Ucraina, e che hanno accusato il film di propagandare idee anti Russia. Molto consigliato. Al cinema.
sabato 14 giugno 2025
FINO ALLE MONTAGNE di Sophie Deraspe
Mathyas è un giovane quebecchese che si trova in Francia, a Arles. I soldi sulla carta di credito stanno per finire e lui ha deciso di non tornare in Canada e al suo vecchio impiego nel marketing ma di inseguire il suo sogno: diventare pastore. Per questo si mette in contatto con alcuni allevatori locali di pecore offrendosi come apprendista. Lo scopo sarebbe imparare e scriverne un libro. A volte è molto piacevole guardare un film dalla trama apparentemente noiosa con attori e regista pressoché sconosciuti. Si hanno meno aspettative e ci si può lasciare andare a un semplice sguardo. Eppure l'opera di Sophie Deraspe, esponente pluripremiata (il suo "Antigone" del 2019 ha riportato vari premi in ogni angolo del mondo) della nuova scena in Quebec è tutto meno che noiosa. Ha un gran bel ritmo e la storia è avvincente, sembra un film di avventura dove la natura violenta degli uomini fa da contraltare alla natura spietata dei luoghi e della fauna. In questo senso la visione romantica di Mathyas si infrange contro la realtà delle cose di un mondo di cui ha solo letto e non sperimentato sulla propria pelle. Il giovane cerca il lavoro duro per arrivare alla terra e all'essenza della stessa e della natura ma il suo (e il nostro) sguardo muterà nel corso degli eventi. Un film bello, nel senso più puro della parola, senza fronzoli né manierismi, la camera si perde a volte in campi lunghissimi ma mai fissi e si fa respiro facendoci entrare direttamente nella storia. Scritto dalla regista e da Mathyas Lefebure la sceneggiatura è l'adattamento del racconto semi-autobiografico "D'où vient tu berger?" dello stesso Lefebure. Ottimi gli interpreti Felix-Antoine Duval e Solène Rigot. Un film convincente e realistico da vedere al cinema.
mercoledì 2 aprile 2025
LEE MILLER di Ellen Kuras
Un’anziana signora, Lee Miller, racconta a un giovane giornalista, venuto a intervistarla nella sua casa di campagna, la storia della propria vita. Partendo dagli anni ‘30 Lee Miller, modella americana conduce una vita bohemien nel sud della Francia, attorniata da amici come Paul Eluard, Man Ray, Picasso, Dora Maar. Lì conosce il futuro marito Roland Penrose con il quale si trasferisce a Londra. Lui è artista e poeta, lei smette di fare la modella e inizia il lavoro di fotografa di moda e di arte. Ma la seconda guerra mondiale incombe. Prodotto, tra gli altri, da una Kate Winslet in gran forma che da volto e corpo alla figura di Lee Miller: il film mostra un bellissimo ritratto di donna forte e coraggiosa che osò sfidare le convenzioni dell’epoca e con caparbietà riuscì a passare da oggetto fotografato a soggetto fotografante. In questo fu aiutata da un gruppo di amici: tra di loro ci fu anche George Hoyningen - Huene (se siete a Milano andate a vedere la mostra a lui dedicata a Palazzo Reale) che la ritrasse in più di uno scatto. Alla regia nel suo primo lungo di finzione esordisce Ellen Kuras (già documentarista e direttrice della fotografia per Michel Gondry, Spike Lee, Sam Mendes, Martin Scorsese e molti altri): riesce a dare un ottimo ritmo alla vicenda, (basata sul libro di Antony Penrose “Le molte vite di Lee Miller”) senza cadute, manierismi e ricerche stilistiche particolari e interrogando la vicenda con stile documentaristico. Ottima interpretazione molta accorata della già citata Winslet (candidata come miglior attrice ai Golden globe); più misurate (ma non per questo meno efficaci) quelle di Alexander Skarsgard (Roland Penrose), Marion Cotillard e Josh O’ Connor. Nel complesso un ottimo film da non perdere. Al cinema.
domenica 23 marzo 2025
L'ORTO AMERICANO di Pupi Avati
Nel 1946 a Bologna, un giovane scrittore (Filippo Scotti) viene “fulminato” da una giovane infermiera dell’esercito americano di stanza nel capoluogo emiliano. Settimane dopo, grazie a uno scambio di case, si reca in un paesino dello Iowa per vivere 6 mesi negli Stati Uniti. Lì, per una casualità viene a scoprire che l’anziana vicina di casa è la madre dell’infermiera che lui ha visto a Bologna: la ragazza è misteriosamente scomparsa a Argenta, in Emilia. Il ragazzo decide di tornare in Italia a cercarla. Con tutta la bontà e la simpatia che si può provare per Pupi Avati non si può dire che il nuovo film dell’86enne regista bolognese sia un capolavoro. Tutt’altro purtroppo. E’ girato in un bianco e nero secco nella prima parte, (dagli echi hitchcockiani) e più morbido e caldo nella seconda parte (“alla Rossellini” per dirla con le parole del regista alla presentazione del film). La pellicola parte bene ma poi si avvolge un po’ su se stessa e sulle interpretazioni degli attori, non troppo convincenti, a volte perfino superficiali. Peccato perché l’opera ha in sé molti punti comuni del cinema di Avati: il colpo di fulmine (purtroppo qui sottolineato da uno slow-motion una musica romantica), la ricerca dell’amata, l’eroe giovane e spesso ingenuo e curioso. Girato e fotografato bene (da Cesare Bastelli, habitué del regista) è tecnicamente valido. Quello che non va, forse demerito anche della scrittura (tratta dal libro omonimo del regista che firma la sceneggiatura con il figlio Tommaso) che cerca di mandare avanti la storia invece che aprirla allo sguardo (e al cuore!) dello spettatore, è che non si prova molto interesse nella vicenda. Come se l’autore conoscesse tanto bene la storia, per lui così evidente, da “dimenticarsi” di spiegarla e mostrarla a chi guarda. Non svelata non si da il giusto valore alla vicenda. Convincono i ruoli secondari di Chiara Caselli e Cesare Cremonini. Un’operazione non molto riuscita che si può anche evitare. Al cinema.
venerdì 28 febbraio 2025
A REAL PAIN di Jesse Eisenberg
David (Eisenberg) e Benji (Culkin) sono due cugini molto diversi tra loro che non si vedono da un po’: uno è sposato con un figlio, misurato, pacato, con un buon lavoro; l’altro è solo, estroverso, pazzerellone, disoccupato. I due decidono di fare un viaggio insieme verso la Polonia, terra natia dell’amata nonna deceduta da poco, alla ricerca del “reale dolore”. Arrivati a Varsavia si uniscono a un piccolo gruppo di turisti accomunati da un trauma legato al loro essere ebrei. Il viaggio sarà complicato da imprevisti e situazioni comiche e non, tra i due compaiono i vecchi dissapori e tensioni di famiglia. Jesse Eisenberg dirige il suo secondo film (dopo “When you finish saving the world”) con trasporto e emozione alla ricerca delle sue origini ebree e polacche. C’è da dire che il modo con cui filma è appassionato e in alcune scene (come quella in cui il gruppo va al campo di sterminio di Majdanek) sceglie di mostrare un dolore reale prendendosi il suo tempo, senza dilungarsi e criticare. E sceglie anche di mettersi da parte come personaggio per affidare tutto il lavoro ai comprimari (che non hanno un vero carattere) e al “cugino” nella finzione che invece è monumentale. Kieran Culkin è sublime nella parte di Benji, un uomo tanto esuberante e brillante (“ogni volta che entravi in una stanza la illuminavi e io ti invidiavo” gli dice nel film David) quanto fragile. Il lavoro di Culkin è preciso, sottile, quasi impalpabile, eppure dà un tocco di realtà al suo personaggio, tanto da essere premiato come miglior attore non protagonista agli Oscar, ai Golden Globe, allo Chicago Film Critics Association Award, ai BAFTA e essere candidato agli Oscar, mentre il film è candidato come miglior sceneggiatura originale a Jesse Eisenberg). Una simpatica e ben riuscita commedia drammatica. Da vedere, al cinema
domenica 23 febbraio 2025
THE BRUTALIST di Brady Corbet
Lazlo Toth sopravvive al campo di sterminio di Buchenwald e fugge, via nave, in America. Si trasferisce in Pennsylvania a Doylestown dove vivono il cugino Attila e sua moglie Audrey. I due hanno un negozio di mobili e Lazlo per un po' lavora per loro come architetto. È proprio grazie a Attila che Lazlo conosce Harrison Van Buren, ricco magnate che diventa suo mecenate e gli commissiona un grande lavoro, una fondazione che porti il nome della defunta madre. Ascesa e caduta di un ebreo ungherese tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 60 nel nuovo film di Brady Corbet, un passato da attore (Mysterious Skin, Funny Games, Forza Maggiore e altri) ora regista di questa monumentale e imponente pellicola. Perché proprio di pellicola si tratta: il film è girato in 35mm formato VistaVision (un insolito 16:9) che non veniva usato dai tempi di “I due volti della vendetta” (di e con Marlon Brando, 1961). Corbet appartiene infatti a quella piccola schiera di registi che girano tecnicamente utilizzando il tipo di materiale in uso nel periodo storico narrato nel film. Inoltre il formato è perfetto per un film sull’architettura perché permette di inquadrare un edificio molto alto senza ricorrere al grandangolo. Il regista ha impiegato sei anni per trovare i finanziamenti per la propria opera, tanto da presentarlo da indipendente. Nessuna major evidentemente era disposta a produrre un film così pesantemente critico verso la società americana di quell'epoca, che profittava dell'operato degli immigrati sfruttando i loro talenti (in questo caso l'architettura) senza mai integrarli nella società e violentando l’arte con il potere del denaro. In questo senso il personaggio di Van Buren (uno strepitoso Guy Pearce) è terribile e anche gentile nei suoi modi, una gentilezza poco chiara, che nasconde qualcosa. Il film è diviso in 2 parti più un prologo e un epilogo, tanto da diventare un affresco imponente, non solo nella durata (3 ore e 20 più un intervallo, necessario, di 15 minuti) ma nella messa in scena, più che giusta e calibrata, con qualche ricerca formale interessante, qualche compiacimento e una caduta “turistica” un poco incomprensibile. Buon ritmo, dialoghi convincenti (scrivono lo stesso Corbet con la moglie Mona Fastvold) e il tentativo, più che riuscito, da parte delle scenografe (Judy Becker e Patricia Cuccia, entrambe nominate agli Oscar 2025) di delineare i personaggi attraverso la descrizione degli ambienti in cui vivono. Un'opera bellissima e forte dai tratti di toccante (dis)umanità. Adrien Brody pluripremiato (Oscar, Golden Globe, BAFTA, Critics Choice Awards nel 2025 e Chicago e New York Critcs Awards nel 2024), così come Brady Corbet (Golden Globe migliore regia e miglior film drammatico, BAFTA miglior regia, Leone d’argento per la miglior regia a Venezia 2024). Oscar alla migliore fotografia (Lol Crawley) e alla migliore volontà sonora. Nel cast anche Felicity Jones e Alessandro Nivola. Girato interamente in Ungheria è assolutamente imperdibile. Al cinema.






