Archivio

giovedì 30 novembre 2023

UN ANNO DIFFICILE di Olivier Nakache e Eric Toledano

Albert e Bruno si incontrano casualmente mentre Bruno sta cercando di togliersi la vita. In qualche modo Albert lo salva e da quel momento scoprono entrambi di essere nella stessa condizione di povertà. Pieni di debiti a causa di inutili acquisti seriali i due sbarcano il lunario come possono e sulla loro strada incontrano un gruppo di attivisti (capitanato dalla bella Cactus di cui si innamora Albert) che cercano di sensibilizzare la gente su temi legati al clima e ai consumi sfrenati. Decidono di farne parte non tanto per convinzione ma per interesse personale. Gli elementi per ripetere l’enorme successo di “Quasi amici” di dodici anni fa ci sono tutti: l’amicizia notevole che si crea tra i due personaggi, una comicità un po’ amara ma non troppo, il senso di una tragedia dietro l’angolo, una profondità nel raccontare una situazione di indigenza sì, però dignitosa. Uno dei due registi, Olivier Nakache, presentando il suo film al Torino Film Festival, ha parlato dell’amicizia che lo lega a Eric Toledano (l’altro regista) fin dai tempi delle colonie estive, un’amicizia che si è rafforzata nel corso del tempo grazie all’amore per il cinema, e anche a certi film “forti” e profondi del cinema italiano come “C’eravamo tanto amati”. “Un anno difficile” infatti riprende un po’ il filo della commedia al’italiana unita da un cinema di impegno sociale. Se si ride di certi codici della militanza ecologica (e i due hanno fatto un lavoro immersivo nelle associazioni militanti) è perché l’intenzione dei registi/sceneggiatori è raccontare un ponte tra due generazioni, tra due mondi e tra due modi diversi di vedere le cose. Nel cast gli straordinari Pio Marmaï, Jonathan Cohen, Noémie Merlant (“Ritratto della giovane in fiamme”) e un sempre grande Mathieu Amalric. Il film è molto divertente; esilarante è la sequenza iniziale con i presidenti della repubblica. Da non perdere. Al cinema.

 

venerdì 24 novembre 2023

THE KILLER

 

Parigi: dalla stanza di un appartamento vuoto un killer professionista, metodico e rigoroso, si prepara al proprio incarico: uccidere un uomo in una camera di un’abitazione situata a diversi centinaia di metri da lui. Mentre attende il momento propizio un flusso di coscienza continuo ci parla del suo lavoro come di una routine noiosa, dove la mancanza di empatia favorisce il proprio compito. Armato di fucile di alta precisione il killer si dispone a compiere il suo lavoro, ma proprio sul momento di sparare una donna si frappone tra lui e l’obiettivo e il killer fallisce. Da quel momento in poi la sua vita si complica e dovrà fare i conti con chi cerca di eliminarlo perché ha fallito nel suo compito. L’ultima opera di David Fincher, adattamento cinematografico dell’omonima graphic novel scritta e illustrata dai francesi Matz e Luc Jacomon, è un action thriller diviso in sei parti ed è molto godibile, sia per come viene narrata la vicenda, sia per la costante tensione che si respira, aiutata molto anche dalle sonorità elettroniche di Trent Reznor e Atticus Ross e dal montaggio preciso di Kirk Baxter, veterano dei film di Finch. Il killer (un gelido e imperscrutabile Michael Fassbender) non parla molto eppure suscita nello spettatore quell’empatia un po’ perversa verso un criminale perseguitato “solo” per aver fallito il proprio lavoro e che uccide per vendicarsi. Presentato in concorso al Festival di Venezia il film è uscito per pochi giorni solo in alcune sale e poi è stato distribuito (come il precedente “Mank”) da Netflix. Nel cast di questo bel film anche Charles Parnell e Tilda Swinton. Da notare la colonna sonora, composta quasi interamente da canzoni degli Smiths. Su Netflix.

venerdì 17 novembre 2023

ANATOMIA DI UNA CADUTA

Sandra, scrittrice tedesca, vive col marito Samuel e il figlio undicenne Daniel in una baita montana non lontana da Grenoble. Un giorno il figlio, ipovedente in seguito a un incidente d’auto avvenuto anni prima, esce col cane guida per una passeggiata nel bosco. Quando rientra trova il cadavere del padre in terra ai piedi della baita. Incidente o morte violenta?
"L'importante non è come sono andate le cose, ma perché ": su questa frase, che sentenzia il figlio al processo che coinvolgerà la madre un anno più tardi, la regista Justine Triet, 45enne francese, basa tutto il suo nuovo film. Scritto con il compagno di vita Arthur Harari (come il precedente film Sibyl) l'opera parte da fatti realmente accaduti presi da più documentari criminali e almeno all'inizio è un buon film drammatico. Poi, man mano che le indagini proseguono, scrupolose e approfondite, ci si rende conto che la caduta dell'uomo è relativamente importante, e su quello che è successo ognuno deve farsi una propria opinione della verità. Il che nella nostra vita capita puntualmente, in genere, ogni volta che avviene un fatto di cronaca poco chiaro. Tornando al film la caduta del titolo non fa riferimento solo alla figura del marito della protagonista ma bensì, e soprattutto, alla caduta del loro rapporto di coppia. E questo ci sembra un po' banale e anche un po’ già visto e meglio esplorato in altre opere di altri registi; inoltre, per arrivare a questo risvolto bisogna attendere più di due ore. Il film perciò non è (come induce a pensare un trailer molto ben costruito) un thriller mozzafiato, ma un film drammatico un po' lungo a volte poco credibile costruito tutto sulla figura di Sandra, forse troppo, tanto che il personaggio risulta, nella sua perfezione, un po' finto e antipatico. Peccato perché, sulla carta, sia per come è girato, sia per l’interpretazione poteva essere una buona pellicola, cosa che non è. Il film ha tuttavia convinto la giuria di alcuni festival, in primis Cannes (Palma d'Oro) ma anche Sidney e Bruxelles (Premio del pubblico); inoltre ha vinto la miglior sceneggiatura (Oscar 2024) e il miglior film straniero ai Golden Globes 2024, nonché il Miglior film internazionale ai David di Donatello 2024.  Al cinema.

giovedì 9 novembre 2023

RIABBRACCIARE PARIGI


Mia è una giovane traduttrice che lavora per la radio francese, a Parigi. Una sera invece di rientrare a casa decide di andare a bere del vino in una brasserie. La donna si siede e guarda gli avventori agli altri tavoli: una coppia matura, due ragazze orientali, un gruppo di amici che festeggia un compleanno. All’improvviso si odono degli spari e in men che non si dica alcuni uomini, armati di fucile, iniziano a sparare all’interno del locale. Sopravvissuta all’attacco, Mia dopo tre mesi torna a Parigi e sul luogo dell’attacco per capire quello che le è successo: la sua memoria infatti si è bloccata ai primi colpi di arma da fuoco. Alice Winocour (Premio César 2016 per la miglior sceneggiatura per il film “Mustang”) scrive e dirige, ispirandosi ai fatti del 13 novembre 2015 (e basandosi sulla testimonianza del fratello, sopravvissuto alla strage del Bataclan), il suo quarto film per mostrare il dramma profondo delle vittime sopravvissute a un attacco terroristico: molti non ricordano con esattezza quello che è successo loro, se erano da soli, se si sono nascosti e dove, con chi, mentre attendevano l’arrivo della Polizia. L’interesse della regista è ricostruire il delicato puzzle della memoria di Mia, cui presta il volto e le movenze un’ottima Virginie Efira, premiata con il Cesar 2023 per la migliore interpretazione. L’attrice belga ben interpreta il disorientamento che la perdita della memoria le provoca e l’incapacità di ricominciare la propria vita. Il racconto si sviluppa passo passo, e lo spettatore si fa testimone dei ricordi frammentari di Mia, la segue nelle sue scoperte e nelle sue ricerche. L’incontro con Thomas (un bravo Benoit Magimel) altra vittima dell’attacco la aiuterà a capire che “bisogna essere almeno in due per ricordarsi”. Ricordare vuol dire poter affrontare meglio la propria realtà di sopravvissuti. Riabbracciare Parigi (meglio il titolo originale “Revoir Paris”) è ben scritto, emoziona senza suscitare facili lacrime e arriva in Italia con un anno di ritardo. Al cinema.

giovedì 2 novembre 2023

KILLERS OF THE FLOWER MOON


Oklahoma, anni ’20. Il giovane Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), reduce della grande guerra, torna nel paese natio di Fairfax per vivere sotto l’ala protettrice dell’avido zio William, detto King (Robert De Niro). Il ragazzo ama le donne e l’alcool e non sembra avere una propria volontà, tanto che lo zio lo spinge a sedurre Mollie (una notevole Lily Gladstone), indiana Osage per sottrarle il denaro proveniente dai terreni. Gli Osage, infatti, avevano scoperto che sotto le terre di loro proprietà si celavano enormi giacimenti di petrolio, in un’epoca in cui l’oro nero era molto apprezzato per via del commercio delle auto che andava sviluppandosi in quegli anni. Gli Osage divennero la popolazione più ricca al mondo ed è ovvio che tale ricchezza facesse gola a molti. Lo zio King è un abile manipolatore e, se da una parte sembra un benefattore per la cittadina e la comunità indiana, dall’altra non esita a mettere in pratica i suoi diabolici piani per accaparrarsi terreni e denaro. Martin Scorsese (80 anni e non sentirli!) dirige questo bellissimo e intenso film, partendo dalla storia vera (narrata nel saggio di David Grann, Gli assassini della terra rossa) dello sterminio del popolo Osage. Scrive (insieme a Eric Roth) la sceneggiatura e intesse un racconto terribile di violenza e cupidigia: in questo senso lo zio King diventa una sorta di capo mafia che muove gli uomini come pedine su una scacchiera solo per il guadagno della sua famiglia. In un certo senso è la “solita” storia del popolo americano che razzia le terre dei nativi uccidendoli: il razzismo non parte dall’odio ma dal non possedere la ricchezza degli indiani. Il film è grandioso, misurato, nulla è fuori posto, e in un film di tre ore e mezza poteva anche accadere: e invece no, nessuna lungaggine, il ritmo regge, ogni scena (alcune bellissime, quelle dei rituali indiani) tiene col fiato sospeso, e si vuole sempre sapere cosa accadrà nella scena successiva. La versione originale rende meglio di quella doppiata, si entra di più nel racconto. Dal punto di vista della recitazione DiCaprio ha una certa paralisi facciale (come nella locandina) che pure è del personaggio, per cui alla fine se la cava bene. De Niro è grande, come sempre. Lily Gladstone è bravissima e intensa, speriamo che rientri nella corsa per l’Oscar. Nel cast anche Jesse Plemons, Brendan Fraser e John Lithglow. Il titolo si riferisce ai fiori violacei che nascono in Oklahoma e che gli Osage chiamavano “flower moon”. Presentato fuori concorso a Cannes. Da non perdere. Al cinema.