Durante la guerra di secessione, nell’inverno
del 1862, un piccolo distaccamento di uomini viene inviato a nord in una zona
di confine, per perlustrare e mappare le terre ancora sconosciute. Soli, in
attesa della cavalleria, organizzano turni di guardia verso un invisibile
nemico, giocano a carte o a baseball, puliscono pistole e fucili e parlano: del
perché si sono arruolati nell’esercito, della guerra, di Dio e di religione.
Alcuni soldati sono maturi e esperti,
altri sono giovani che hanno sparato solo a conigli e scoiattoli. Giunto al
sesto film, Roberto Minervini “abbandona” il documentario dei suoi film
precedenti (su tutti svetta “Stop the Pounding Heart” del 2013) concentrandosi
su una finzione documentaristica che rende ricca di significati politici
rispetto all’attuale situazione americana. L’America è, per il 54enne
marchigiano, il paese d’adozione, quel paese che lui ha spesso mostrato nei
suoi momenti più bui (soprattutto “Louisiana” e “Che fare quando il mondo è in
fiamme?”) Questo, più che un film di guerra è un film sulla guerra, su
qualunque guerra, sulle sue brutture e sui momenti tranquilli. Un film che nei
dialoghi ne ricorda altri (da “La sottile linea rossa” a “Il deserto dei
tartari”), in cui apparentemente non succede nulla. E se il nemico è invisibile,
in America, come in Vietnam o nel deserto è perché potrebbe anche non esserci o
essere dentro di noi. Minervini dirige un’opera convincente e bella dai colori lividi,
poetica e brutale come la sequenza iniziale, quella in cui due lupi banchettano
con la carcassa di un animale che ci ricorda una frase di Plauto, ”Homo homini
lupus” (ogni uomo è un lupo per un altro uomo). Premiato come miglior regia a Cannes nella sezione “Un certain regard”. Un buon
film dal buon ritmo, da vedere. Al cinema.
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