David (Eisenberg) e Benji (Culkin) sono due cugini molto diversi tra loro che non si vedono da un po’: uno è sposato con un figlio, misurato, pacato, con un buon lavoro; l’altro è solo, estroverso, pazzerellone, disoccupato. I due decidono di fare un viaggio insieme verso la Polonia, terra natia dell’amata nonna deceduta da poco, alla ricerca del “reale dolore”. Arrivati a Varsavia si uniscono a un piccolo gruppo di turisti accomunati da un trauma legato al loro essere ebrei. Il viaggio sarà complicato da imprevisti e situazioni comiche e non, tra i due compaiono i vecchi dissapori e tensioni di famiglia. Jesse Eisenberg dirige il suo secondo film (dopo “When you finish saving the world”) con trasporto e emozione alla ricerca delle sue origini ebree e polacche. C’è da dire che il modo con cui filma è appassionato e in alcune scene (come quella in cui il gruppo va al campo di sterminio di Majdanek) sceglie di mostrare un dolore reale prendendosi il suo tempo, senza dilungarsi e criticare. E sceglie anche di mettersi da parte come personaggio per affidare tutto il lavoro ai comprimari (che non hanno un vero carattere) e al “cugino” nella finzione che invece è monumentale. Kieran Culkin è sublime nella parte di Benji, un uomo tanto esuberante e brillante (“ogni volta che entravi in una stanza la illuminavi e io ti invidiavo” gli dice nel film David) quanto fragile. Il lavoro di Culkin è preciso, sottile, quasi impalpabile, eppure dà un tocco di realtà al suo personaggio, tanto da essere premiato come miglior attore non protagonista agli Oscar, ai Golden Globe, allo Chicago Film Critics Association Award, ai BAFTA e essere candidato agli Oscar, mentre il film è candidato come miglior sceneggiatura originale a Jesse Eisenberg). Una simpatica e ben riuscita commedia drammatica. Da vedere, al cinema
Archivio
venerdì 28 febbraio 2025
domenica 23 febbraio 2025
THE BRUTALIST di Brady Corbet
Lazlo Toth sopravvive al campo di sterminio di Buchenwald e fugge, via nave, in America. Si trasferisce in Pennsylvania a Doylestown dove vivono il cugino Attila e sua moglie Audrey. I due hanno un negozio di mobili e Lazlo per un po' lavora per loro come architetto. È proprio grazie a Attila che Lazlo conosce Harrison Van Buren, ricco magnate che diventa suo mecenate e gli commissiona un grande lavoro, una fondazione che porti il nome della defunta madre. Ascesa e caduta di un ebreo ungherese tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 60 nel nuovo film di Brady Corbet, un passato da attore (Mysterious Skin, Funny Games, Forza Maggiore e altri) ora regista di questa monumentale e imponente pellicola. Perché proprio di pellicola si tratta: il film è girato in 35mm formato VistaVision (un insolito 16:9) che non veniva usato dai tempi di “I due volti della vendetta” (di e con Marlon Brando, 1961). Corbet appartiene infatti a quella piccola schiera di registi che girano tecnicamente utilizzando il tipo di materiale in uso nel periodo storico narrato nel film. Inoltre il formato è perfetto per un film sull’architettura perché permette di inquadrare un edificio molto alto senza ricorrere al grandangolo. Il regista ha impiegato sei anni per trovare i finanziamenti per la propria opera, tanto da presentarlo da indipendente. Nessuna major evidentemente era disposta a produrre un film così pesantemente critico verso la società americana di quell'epoca, che profittava dell'operato degli immigrati sfruttando i loro talenti (in questo caso l'architettura) senza mai integrarli nella società e violentando l’arte con il potere del denaro. In questo senso il personaggio di Van Buren (uno strepitoso Guy Pearce) è terribile e anche gentile nei suoi modi, una gentilezza poco chiara, che nasconde qualcosa. Il film è diviso in 2 parti più un prologo e un epilogo, tanto da diventare un affresco imponente, non solo nella durata (3 ore e 20 più un intervallo, necessario, di 15 minuti) ma nella messa in scena, più che giusta e calibrata, con qualche ricerca formale interessante, qualche compiacimento e una caduta “turistica” un poco incomprensibile. Buon ritmo, dialoghi convincenti (scrivono lo stesso Corbet con la moglie Mona Fastvold) e il tentativo, più che riuscito, da parte delle scenografe (Judy Becker e Patricia Cuccia, entrambe nominate agli Oscar 2025) di delineare i personaggi attraverso la descrizione degli ambienti in cui vivono. Un'opera bellissima e forte dai tratti di toccante (dis)umanità. Adrien Brody pluripremiato (Oscar, Golden Globe, BAFTA, Critics Choice Awards nel 2025 e Chicago e New York Critcs Awards nel 2024), così come Brady Corbet (Golden Globe migliore regia e miglior film drammatico, BAFTA miglior regia, Leone d’argento per la miglior regia a Venezia 2024). Oscar alla migliore fotografia (Lol Crawley) e alla migliore volontà sonora. Nel cast anche Felicity Jones e Alessandro Nivola. Girato interamente in Ungheria è assolutamente imperdibile. Al cinema.
venerdì 14 febbraio 2025
ITACA - IL RITORNO di Uberto Pasolini
Odisseo (il bravissimo Ralph Fiennes), partito da Itaca per la guerra di Troia, fa ritorno, vent’anni dopo la fine del conflitto, sulla sua amata isola, dove ha lasciato il regno, una moglie e un figlio che non ha mai visto. Durante la sua assenza il trono è stato assediato da molti pretendenti che tormentavano Penelope, sua consorte, perché scegliesse uno di loro. Ma la donna che in cuor suo crede il marito ancora in vita, ha iniziato a tessere una tela asserendo che dopo aver terminato il suo lavoro sceglierà un uomo. Invecchiato, stanco e fiaccato dalla violenza della guerra Odisseo è aiutato dallo schiavo Eumeo (un buon Claudio Santamaria) che lo cura perché possa riprendersi il trono, la moglie e la guida del regno. Buona trasposizione cinematografica dell'Odissea di Omero, affidata all'ottimo Uberto Pasolini, che punta il dito contro la guerra e la sua (in)utilità. Il suo Odisseo è stanco, e non solo per le peregrinazioni di cui è stato vittima (Polifemo, la maga Circe, le sirene incantatrici e molti altri) e in cui si è perso, ma anche per la vergogna di tornare da solo, senza essere riuscito a salvare nessuno dei suoi soldati. È descritto come un uomo e non come lo stratega che si è inventato il cavallo di legno per entrare nel ventre della città di Troia. L'uomo di Pasolini è ombroso, avvilito e si interroga su come tutto sia guerra e del fatto che pur odiando il sangue sparso dovrà versarne altro per potersi riprendere il trono. È la consapevolezza dell'uomo guerriero che altro non ha fatto in vita sua se non la guerra, e ora quello che brama è solo la pace. Anche Penelope si chiede "perché gli uomini devono andare a fare la guerra?". Il film è ben fatto e diretto, c'è un gioco di ombre e luci che rimanda all'ombrosità dell'uomo, al suo essere poco chiaro. Pasolini dirige un nutrito cast di attori internazionali molto convincenti, tra cui Juliette Binoche (Penelope), il già citato Ralph Fiennes (Odisseo), Angela Molina (Euriclea, nutrice di Odisseo). Solo Charlie Plummer, che interpreta Telemaco, figlio di Odisseo sembra fuori luogo e non adatto al film. Girato per lo più in Italia e a Corfù, il film non è forse uno dei migliori del regista ma merita comunque la visione. Al cinema.
sabato 8 febbraio 2025
IO SONO ANCORA QUI di Walter Salles
Rio de Janeiro, 1970: Eunice e Rubens Paiva sono una
coppia sulla quarantina, hanno 5 figli di varie età, conducono una vita
borghese (con tanto di tata che si occupa della casa, della cucina e a volte
dei figli) nella loro villa di fronte alla spiaggia. Si sta avvicinando il
Natale e la vita al sole e al mare è spensierata, senza problemi, nonostante la
dittatura instauratasi nel 1964 ha espulso dalla vita politica Paiva, ex deputato
che svolge il suo lavoro di ingegnere; la moglie invece si occupa dei figli.
Storicamente siamo nel pieno del regime, alcuni amici di Paiva partono per l'estero
e lui gli affida Veroca, la loro figlia più grande perché vada a Londra, per studiare
e vivere tranquilla, senza la paura che incutono i militari che girano per la
città. Poi un giorno, Rubens viene "prelevato" da alcuni uomini per
una deposizione. Dopo un giorno anche Eunice e Eliana, la figlia più grande rimasta,
vengono prelevate e incarcerate. La figlia torna a casa il giorno successivo,
mentre la madre rimane incarcerata per più di una settimana, in cui le viene
chiesto ripetutamente delle attività sovversive del marito e se in un album pieno
di fotografie di ricercati vede qualcuno che conosce. Eunice, che non ha nulla
da dire viene rilasciata e inizia in seguito la trafila per capire dove sia il
marito. Il Brasile, come i vicini di territorio (Argentina e Cile) ha avuto la
sua dittatura terribile e violenta tra il 1964 e il 1985. Walter Salles regista
dal forte impatto visivo (ricordate “Central Do Brasil” del 1998?) ci regala
una pellicola forte e cruda, ma più che le brutture fisiche e violente delle
torture e delle morti, mostra gli effetti che questi eventi hanno su una
famiglia che fino a allora ha vissuto la propria vita con allegria, con una
gioia quasi primordiale. In questo senso anche il figlio piccolo, Marcelo,
scapestrato bimbo appassionato del pallone e del mare che ne ha sempre una, si
placa intuendo che qualcosa non va, perché il padre non torna, cosa è successo?
È indagando gli sguardi di Eunice (una stupenda, vibrante e emozionante Fernanda
Torres), costretta a nascondere la propria disperazione al figli piccoli e vivendola
con le figlie grandi, che l'orrore e l'umiliazione della dittatura vengono mostrate.
E l'immagine che ne fa il regista brasiliano è il suo sguardo interrogante:
perché? Perché tutto questo? Perché costringere persone serie, rette e oneste
all'umiliazione di una colpa che non esiste, non c'è? Salles osserva, mostra,
non giudica ma il suo sguardo, come la sua mano nel dirigere la storia (tratta
dal libro omonimo di Marcelo Rubens Paiva) e un cast di attori fenomenale è
ferma e sicura. Sicura come la certezza che simili vicende non dovrebbero mai
(più) capitare. Un film splendido, che non cede mai al melodramma o al
pietismo, emoziona e va dritto al cuore. Un thriller dell'anima, per conoscere
e dire no a qualunque privazione forzata della libertà. Meritatissimo Oscar come miglior film internazionale e Golden
Globe a Fernanda Torres (candidata anche agli Oscar) per la migliore
attrice in un film drammatico. Miglior sceneggiatura a Venezia 2024. Da non
perdere. Al cinema.



